MADHOUSE. Qualche ora prima.
La prima cosa che Kenny Portland vide aprendo gli occhi, fu il dottor Kabowsky sopra di sé, con una siringa in mano, tenuta in alto sulla sua testa. In quei lunghi istanti, si sentì diverso, come se fosse stata un’altra persona ad abitare il suo corpo. Realizzò poco dopo che quello che sentiva, era il vero Kenny Portland, riportato alla luce da un complicato esperimento messo in atto dai medici che si trovavano in quella stanza insieme a lui in quel momento. Ci volle qualche secondo per riprendere la lucidità, quanto basta per colpire con violenza Kabowsky, facendolo cadere giù dal lettino, siringa compresa. Ora il suo unico scopo era uscire da lì, e ricordando quella che era la sua vita prima di essere internato, non gli sembrò poi un’impresa così ardua.
Il dottor Kevinson non si capacitava: aveva fallito. Il suo paziente, ora estremamente pericoloso, stava per evadere da MADHOUSE. Poteva leggerglielo negli occhi. Tutto quello che poté fare, fu scagliarsi contro di lui mentre scendeva dal lettino, per tentare d’atterrarlo. La forza di Portland però, si dimostrò in tutta la sua brutalità, quando con un solo colpo gli fece perdere conoscenza. Alla scena assistevano altre tre persone aldilà di un vetro anti-proiettile. Avvenne tutto così in fretta che non riuscirono neanche a realizzare ciò che stava accadendo.
Il dottor Mitchell rimase immobile, non sapendo cosa fare, ma soprattutto non avendo intenzione di rischiare la sua vita per salvare quella storica impresa di cui faceva parte, oramai palesemente fallita. Rimase lì, in un angolo, mentre Kenny Portland si dirigeva verso la porta d’uscita, squadrandolo. «Non ti farò nulla se non m’intralci» disse con voce roca. Mitchell neanche rispose. Si limitò ad annuire con la testa tremante, consapevole di aver di fronte a sé uno spietato assassino. «Bene» dichiarò a sé stesso Kenny, mentre varcava la porta della camera. «Iniziano i giochi».
Appena fuori dalla stanza, vide un gruppo di persone che correvano verso di lui: erano sicuramente agenti di sicurezza allertati poco prima. “Non è un problema per me” pensò fomentandosi, mentre si avvicinavano. “Vediamo cosa sono capaci di fare”. Un attimo dopo, tre agenti gli furono addosso. Con loro enorme sorpresa, verificarono la spaventosa forza dell’uomo che avevano di fronte: con un solo colpo Kenny ne scaraventò due contro il muro, mentre il terzo venne atterrato con un violento calcio sulle gambe. Gli altri agenti, a pochi passi da Portland, pensarono in fretta a come poterlo attaccare. «Fatevi avanti!» Urlò. «Vi aspetto!» Concluse sprezzante. «Maledetto!» Imprecò un robusto agente della sicurezza. «Ti prenderò! Ti do la mia parola!» Un istante dopo si scaraventò verso di lui, colpendolo di sorpresa al volto. Kenny rialzò la testa, squadrando il suo avversario, il sangue iniziò a gocciolargli dal naso. «È solo questo che sai fare…» sussurrò provocandolo. «Tra… tra qualche minuto saranno qui i rinforzi» disse sperando di impaurirlo. «E allora sarai fregato!» «Io sarò fuori da qui molto prima» rispose Kenny. «Fatti da parte, non voglio ucciderti… se non mi costringi». Kenny Portland, a quel punto, si scagliò verso i pochi agenti rimasti, che si scansarono per farlo passare, e si diresse di corsa verso le scale in fondo al corridoio. Dentro di loro, sapevano che avevano a che fare con una belva. «Fermatelo!» esclamò con tutto il fiato che aveva in gola il dottor Mitchell, correndo verso gli agenti immobili, seguito da un Richard Kevinson zoppicante. «Non deve assolutamente lasciare l’ospedale!» «Si fermi» disse l’agente che aveva affrontato poco prima il neo-evaso. «Non può competere con lui». «Co… cosa significa?» farfugliò Kevinson. «È un individuo molto pericoloso!» «Non vi conviene affrontarlo ora» rispose secco. «Dobbiamo prepararci. Ho affrontato molti criminali in vita mia, ma mai uno come quello. È un mostro» sentenziò.
Kevinson e Mitchel si guardarono. Sapevano bene di cosa stava parlando l’agente: la cura potenziava in maniera incredibile il corpo umano. «Ha ragione» confermò Kevinson. «Dobbiamo organizzarci. Lei» disse indicando l’agente presentatosi come Thomas Lisse, «venga con noi». I tre si diressero verso la sala nella quale avevano operato Kenny Portland pochi minuti prima.
«Ci sono» disse tra sé e sé Kenny, scendendo le scale verso il parcheggio sotterraneo di MADHOUSE. «Ora mi serve un’auto». Camminava a passo svelto alla ricerca di una macchina che lo potesse portare fuori da lì nel minor tempo possibile. Sapeva che tra non molto avrebbe avuto molte persone alle calcagna. «Non ci credo…» sussurrò affannando, lo sguardo rivolto in fondo all’enorme parcheggio. «È lei» disse osservando una splendida Mustang color blu notte, posteggiata in un posto riservato. «L’auto dei miei sogni…» sussurrò felice mentre le si avvicinava. La sfiorò dolcemente con la mano: era stupenda. Forzò la serratura, attento a non graffiare la carrozzeria, e montò in macchina. Kenny Portland amava le automobili, quasi più delle donne. Dopo aver acceso il motore collegando i fili dell’accensione sotto il cruscotto, partì verso l’uscita del parcheggio. “Finalmente” pensò con le lacrime agli occhi. Il rombo del motore lo eccitava. “Sono libero e posso portare a termine ciò che avevo iniziato”. Un minuto dopo uscì dal parcheggio, e fu investito dalla luce del primo pomeriggio. Accelerò, posandosi sugli occhi un paio d’occhiali da sole, portando il motore al limite per poi imboccare la statale vicina diretta verso Jefferson City.
Fuori dal parcheggio, appostato a pochi metri dall’entrata di MADHOUSE, c’era l’agente Tom Potara. Sul suo cerca-persone un messaggio mandatogli poco prima dal collega Jason Bitter recitava: “Il soggetto Portland sta fuggendo da MADHOUSE. Raggiungimi al più presto”.
Alla vista della Mustang fuggire via, realizzò cosa stava accadendo.