Strage al Caffé Dakota

Il K5 sfrecciava a tutta velocità sulla statale dodici verso Jefferson City, per recuperare al più presto l’agente speciale Tom Potara, e poi dedicarsi alla ricerca dell’evaso. Grazie alle informazioni lasciate al collega Jason Bitter, il gruppo si diresse al parcheggio del centro commerciale Twins Mall, il più grande della città. Erano quasi le cinque del pomeriggio, e avevano ancora qualche ora per trovarlo, prima che calasse la notte.

Proprio all’entrata del parcheggio, il dottor Kevinson, ancora con il camice addosso, notò un viso conosciuto: era Tom Potara.
Dopo aver fatto salire l’agente nel retro del furgone, insieme a Malcolm McDoweld e Thomas Lisse, Kevinson ripartì verso il centro della città. «Ti prenderemo Kenny» disse carico. «Ti prenderemo!»

Il Caffé Dakota, nel pieno centro di Jefferson City, era un noto punto di ritrovo per malviventi d’ogni razza. Dai ladruncoli d’appartamento, ai pericolosi membri di famiglie mafiose. Da sempre, il proprietario Frank Zappa, aveva lucrato sugli enormi consumi d’alcool e droga, spacciata da lui stesso e altri suoi fedeli ceffi all'interno del locale stesso. Frank era un uomo sulla cinquantina, con velleità da musicista. Vestiva solitamente con jeans e maglietta scura, coperti da uno straccio legato in vita. Il Caffé Dakota, era forse il locale più protetto della città, grazie anche a clienti d’alto rango. La polizia non avrebbe neanche lontanamente pensato di compiere un’ispezione proprio lì dentro, senza pensare alle conseguenze. Molti poliziotti poi, ne erano frequentatori abituali.

«Dammi un altro scotch» ordinò un uomo al barista. «Oggi voglio ubriacarmi». «Come se non lo avessi mai fatto» rispose Frank servendogli lo scotch. «Ti ricordo che ieri ho dovuto riaccompagnarti a casa perché non riuscivi neanche a reggerti in piedi, brutto bastardo». «Te ne sono grato» bofonchiò sorseggiando il drink. «Sei un bravo ragazzo, Frank». «Grazie, anche tu…» Frank alzò lo sguardo verso l’entrata del locale. Nella semioscurità che regnava in quel posto, riconobbe subito il volto di una persona conosciuta, appena entrata. «Ohhh, il signor Portland» sussurrò, uscendo da dietro il bancone. «Non ci posso credere…» Intanto Kenny si avvicinava al bar, osservato da tutti i presenti. Poteva sentire sussurri che lo riguardavano. «Frank» esordì. «È da tanto che non ci vediamo!» «Kenny...» disse l’uomo. «Dove diavolo eri finito?» «Diciamo che sono stato in vacanza. Ma ora sono tornato!» rispose con un sorriso. «Sono davvero contento!» eslamò Frank, rientrando dietro al bar e iniziando a preparare un drink, il preferito da Kenny. «Eravamo tutti preoccupati». «Immagino» si limitò a dire lui, sedendosi su uno sgabello. «Ora però sono qui, per pareggiare i conti». «In che senso?» chiese Frank mentre gli serviva un daiquiri alla frutta, con tanto ghiaccio. «Ricordi cosa successe poco prima che io… ehm… sparissi nel nulla?» «Sì: hai avuto dei problemi con i Kallaghan». «Esatto. Ora sono qui per rimettere le cose a posto» disse guardandosi in giro. «Ne vedo già alcuni seduti lì in fondo» ed indicò quattro loschi uomini intenti a discutere in un angolo del locale. «Fa quello che devi fare» sussurrò Frank, sorridendo. Non gli interessava affatto la sorte di quei poveri disgraziati. «Non ho molto tempo» disse preoccupato Kenny, mentre sorseggiava il drink. «Mi stanno cercando». «Chi?» domandò il barista. «Dei miei vecchi amici» mentì spuduratamente. «Vogliono che torni in vacanza con loro». «Non sanno quanto ami il tuo lavoro vero?» chiese Frank, pulendosi le mani umide con lo straccio sporco. «È proprio quello che stanno per scoprire. Intanto devo sistemare quei quattro maledetti» ringhiò con tono di voce basso e cupo. «Sarà un bel messaggio per Robert Kallaghan. Kenny Portland è tornato in città!» Brindarono con un altro drink, e scoppiarono in un allegra risata.

«L’ultima volta che l’ho visto si dirigeva verso la parte est della città» disse l’agente Tom Potara, a bordo del K5 che sfrecciava per una stretta stradina. Il dottor Kevinson si dimostrava un gran pilota. «Sono sicuro che stia cercando i suoi vecchi amici». «Di chi state parlando?» chiese Malcolm, incuriosito dal passato del suo collega. «Devi sapere che il tuo amichetto è un pericoloso mafioso di questa città». Quell’informazione lo lasciò di stucco. Non avrebbe mai immaginato Kenny come un criminale di quel genere. «Siamo arrivati!» esclamò Kevinson inchiodando. Dopo un’ora e mezza di viaggio il gruppo era finalmente giunto a destinazione. «Scendiamo!» Ordinò.

Tutti e cinque scesero dal furgone, dopo averlo parcheggiato in un posto sicuro, nascosto dietro un cartellone pubblicitario. «Siamo pronti» disse il dottor Kevinson agli altri, raggruppati sul retro del K5. «Armiamoci a dovere. Ricordatevi che non dobbiamo ucciderlo, ci serve vivo». Aprì un cassettone sul pavimento del furgone, ed estrasse alcune pistole. Si tolse il camice e comunicò: «Ci divideremo in due squadre. Appena qualcuno avrà informazioni utili, contatterà l’altra squadra». «Bene» disse Lisse. Gli altri annuirono. «Io, Malcolm e Jason andremo in centro. Tom e Thomas ci coprirete le spalle dalla parte est. Tutto chiaro?» «Sì!» risposero in coro come un gruppo di soldati al loro generale. Il dottor Kevinson era un ottimo leader. «Bene, procediamo». Il gruppo si divise e ognuno andò nella direzione pattuita. La caccia era appena iniziata.

Quando la pattuglia della polizia di Jefferson City arrivò in Sunny Street, si rassegnò all’evidenza: il quartiere era in mano alla mala, e nessuno lo avrebbe più recuperato. I due agenti dovettero redarre l’ennessimo rapporto per una strage all’interno del solito Caffé Dakota. Era ormai una routine. Finito il loro burocratico lavoro, montarono sulla volante e tornarono al commissariato.

Poco lontano, Kenny Portland, camminava lungo il marciapiede diretto verso Shadows Street, mentre ripuliva la sua pistola e se la riponeva nella tasca del giubbotto. «Questo è solo l’inizio» sussurrò tra sé e sé. «Robert… sto arrivando!»